Padre Aurelio, è vero che sei stato arrestato?

«Sì, stavo fotografando le miniere d’oro per documentare che imprese arrivate in Centrafrica dall’Asia orientale stavano lavorando in un terreno dove non erano autorizzati, deviando un fiume fondamentale per la popolazione, e che, con il mercurio, stavano inquinando la terra e i flussi di acqua. Mi hanno fermato, sequestrato cellulare e macchina fotografica e portato in una specie di caserma. Questo è stato un momento importante per me, perché subito è arrivata una folla di centinaia di persone, che chiedevano la mia liberazione. La città si è ritrovata tutta in strada perché ha capito non tanto che in gioco c’ero io, ma che in pericolo era tutta la città per lo sfruttamento dell’oro e per l’inquinamento. È triste che gli stranieri vengano a impoverire un paese, ma anche che alcune persone del paese stesso permettano loro di derubare e inquinare e, tutto ciò, senza beneficio per le comunità locali».

Dove trovi il coraggio di tornare di nuovo là?

«Don Abbondio diceva: “Il coraggio, uno se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Io quando mi trovo in una situazione di pericolo non so prevedere quello che succederà ma cerco di risolverla. Noi in questi anni abbiamo dovuto far fronte prima ai ribelli e poi ai ladri. Un paio di anni fa, è successo a Yolé, dove abbiamo un seminario, una sera c’era una festa ed eravamo là tutti insieme, a un certo punto alcuni uomini armati entrano nel cortile».

E come avete fatto?

«Mentre gli altri scappavano, io sono andato verso quegli uomini perché il mio primo pensiero è stato: “Bisogna fare qualcosa per proteggere i bambini”. Quando sono arrivato lì, c’era un altro missionario, Padre Marcello, che stava discutendo con i banditi armati. Lo minacciavano e gli dicevano: “Vogliamo i soldi”. Abbiamo improvvisato un po’, lui faceva quello buono: “Sì, un attimo, state calmi”. Io facevo quello cattivo e dicevo: “Non potete stare qui! Andate via subito! Siamo qui per aiutare i bambini, state indietro!”. Pian piano intanto li facevamo andare indietro verso il portone. Avevano anche sequestrato una delle sentinelle, per fortuna uno di loro ha avuto una specie di crisi epilettica, forse causata dalle sostanze e dalle droghe che assumono i banditi. A quel punto hanno concentrato l’attenzione sul loro compagno e la nostra guardia ha avuto la prontezza di buttarsi all’interno della missione e noi abbiamo chiuso il portone. Allora hanno sparato qualche colpo in aria, ma vedendo che non succedeva niente, se ne sono andati».

La notte riesci a dormire tranquillo?

«Grazie a Dio, di notte dormo tranquillo. Da qualche mese ci sono i Caschi Blu che dormono vicino alla mia camera. E dormono! Vi dico solo che una notte c’è stato un matto che ha fatto un gran rumore in cortile e loro non sono nemmeno usciti a vedere!».

È stato difficile vivere in un posto così lontano?

«No, ci sono stati dei momenti difficili, ma io sono Carmelitano, noi non siamo mai da soli. Siamo tre Padri: uno di Lecco, uno di Arenzano ed io che sono di Cuneo. Essere in gruppo aiuta molto a condividere e superare le difficoltà. È la cosa bella di essere Chiesa. Nel momento in cui sono davanti ai ribelli, so di non essere da solo. L’abbiamo sentita molto nei momenti difficili: la compagnia di migliaia di fratelli e sorelle che ci sostengono con le loro preghiere. Anche il Papa è molto sensibile al Centrafrica. È venuto a Bangui, nel 2015, per aprire la prima Porta Santa del Giubileo. Papa Francesco ha invitato il Paese a farsi forte del suo nome cercando di essere veramente il Cuore dell’Africa, un cuore accogliente, che prega, che soffre, che spera».

Come fai a dialogare con gli abitanti?

«Parlo la lingua Sango. È una lingua nata lungo il fiume, le chiamano lingue commerciali. C’è un po’ di tutto dentro: francese – il Centrafrica è stata una colonia francese fino al 1960 -, tedesco, swahili…».

Ma gli animali grandi non ti fanno paura?

«Dipende da quali animali. Non ce ne sono più tanti, qualche serpente ogni tanto. Una notte sento qualcosa di freddo sul piede. Ho il sonno molto pesante, eppure mi sono svegliato e ho calciato, per sicurezza. Ho visto che era un serpentello che era sul letto».

Ti sei affezionato a Bozoum?

«Sì, certo, ho vissuto là così tanti anni e sono conosciuto dalla popolazione perché nel bisogno ho cercato di aiutarli, anche facendo conoscere la situazione in cui vive. Ho un blog su Blogspot in Internet, si chiama “Bozoum in diretta”. È scritto in sette lingue. Ho anche scritto un libro dove racconto le cose che succedono nella nostra missione. Questi mezzi social sono molto importanti. In Italia si pubblica la foto di quel che mangi al ristorante, dal Centrafrica invece facciamo conoscere le notizie che nei canali tradizionali non passerebbero.

Che cosa si mangia in Centrafrica?I cibi sono strani?

«Il cibo è piuttosto monotono. C’è la manioca, che è una specie di polenta ma povera di elementi. Con la manioca si mangia verdura con salsa o carne. Il piatto della festa sono le “kanda”, delle polpette fatte con dei semi che sono simili ai semi di zucca, detti “sosso”, in cui si mette pesce o carne, anche di pipistrello. A me piace cucinare, mi distende e lo faccio soprattutto quando ci sono tensioni o preoccupazioni. Quando mi vedono in cucina:“Che problema c’è oggi?” – mi chiedono le suore».

Come avete festeggiato il Natale? Quanta gente della popolazione crede in Gesù?

«I cristiani sono intorno al 60% in tutto il paese, ci sono anche altre confessioni, come i protestanti. Il Natale è molto bello perché è molto semplice. A Pasqua invece c’è una grande festa perché celebriamo i battesimi, sia di bambini che di adulti. Per voi è scontato, lo fate da molto piccoli, ma là bisogna “conquistare” il Battesimo preparandosi e studiando. Quando finisce la celebrazione, anche alle 10 o 11 di sera, a mano a mano che la gente scende nel paese, senti la città che si riempie di canti, che poi durano pertutta la notte. È un momento di gioia per tutti!».

Grazie Padre Aurelio per aver condiviso con noi una parte del tuo cammino!

I giornalisti de “il Palio Junior”, periodico della Parrocchia S. Ambrogio di Cassina Amata (MI)