Arriva con un cappello di quelli che si usano nella savana per proteggersi dal caldo, un grande sorriso e tanta voglia di parlare della missione. P. Marco Poggi ha entusiasmo e voglia di fare in abbondanza, come ha potuto constatare chi lo ha ascoltato la scorsa estate nell’ambito di “Arenzano 4 Mission”.

P. Marco, la sua storia inizia con un campo estivo, giusto?

Esattamente. Sono nato a Tortona e la mia famiglia è molto credente. A nove anni ho saputo del seminario di Arenzano e ho chiesto di andare: l’anno dopo ho partecipato al primo campo estivo e sono stato positivamente colpito dall’esempio dei giovani frati. Questo episodio è stato determinante e mi ha fatto decidere di proseguire. Così sono entrato in seminario nel 1992 con mio fratello. E dire che giocavo bene a calcio e avevo attirato l’attenzione di un osservatore della giovanile della Samp: era andato a parlare con mio padre per convincerlo, ma avevo chiara la strada davanti a me, ed era in seminario.

Dopo dodici anni, il primo viaggio in Centrafrica.

Nel 2004 il Centrafrica è stato meta del mio stage pastorale. Fui inviato al seminario di Yolé: ricordo ancora il grande contrasto e il mix di emozioni nel vedere povertà, bambini malnutriti e malati.

Negli anni a venire, memore di quest’esperienza,  ha continuato a stare accanto alle persone che soffrono.

Proprio così, ricordo che andavo all’ospedale Galliera di Genova, con il cappellano, a visitare i malati. Un’altra esperienza intensa è stata al carcere di Marassi: una volta alla settimana vedevo persone con un passato difficile, ma anche tanta voglia di cambiare vita, grazie alla fede in Gesù che li ha aiutati.

Nel 2009 infine è stato ordinato sacerdote e il suo percorso di formazione è stato completato.

Sì, anche se inizialmente non sapevo se avrei voluto essere un semplice frate o un sacerdote. Volevo pensarci su, mi sentivo timido per parlare davanti a tanta gente. I confratelli invece mi dicevano che ero portato. Anche il mio padre spirituale mi chiese di accettare il sacerdozio, così mi misi a disposizione. Quando arrivò il giorno dell’ordinazione e quando il vescovo mi impose le mani provai una pace interiore, era la grazia dello Spirito Santo: ero pronto.

È tornato subito in Centrafrica?

Lo stesso giorno della mia ordinazione il padre provinciale mi chiese se fossi disposto a passare un periodo in Centrafrica come sacerdote. Fu così che trascorsi ben 14 anni nelle missioni. I primi mesi venni mandato a Bozoum, un’esperienza bellissima con tanta gente che mi è rimasta nel cuore: c’era un villaggio vicino che era senza sacerdote da mesi, quando arrivai mi accolsero con canti e tanta gioia. Ebbi modo di lavorare anche con le coppie per il corso pre-matrimoniale, poi venni mandato a Bangui perché c’era bisogno di un responsabile per i giovani che si apprestavano a diventare frati.

Iniziò dunque una lunga esperienza con i giovani.

Un bellissimo cammino che mi ha visto formatore e rettore del seminario di Yolé dal 2011 al 2020. Certo era una realtà molto diversa rispetto a quella a cui ero abituato, ma entrare in relazione con i ragazzi è stata una sfida molto motivante.

Infine il ritorno a Bozoum…

Dopo questi nove anni, mi è stato chiesto di tornare a Bozoum per succedere a P. Aurelio Gazzera come parroco, per me un’esperienza nuova. La città è povera, ma la Chiesa locale è vivace, piena di bambini, è una gioia vederli sorridere nonostante le difficoltà.

In questi anni ha conosciuto molte realtà diverse, come ha fatto ad adattarsi?

Affidandomi al Signore e dialogando con la popolazione. Entrando in empatia con le persone le aiutiamo a crescere nella fede. È una missione importante e delicata perché la gente è entusiasta, ma anche fragile, a volte crede ancora alle superstizioni come malocchio e stregoneria. Bisogna educare a sradicare l’ignoranza con il dialogo e questo richiede formazione da una parte e sensibilizzazione dall’altra.

Questo dimostra anche il ruolo fondamentale dell’istruzione.

Sì, sono convinto che lo sviluppo del Paese passi attraverso l’istruzione, una cultura unitaria e di sviluppo: in tutti questi anni di lavoro i frutti iniziano a vedersi specialmente nelle città, dove si vive meno alla giornata e anche l’economia si è evoluta. D’altra parte, in molti villaggi c’è ancora arretratezza e il divario è enorme: visitandoli sembra di tornare indietro nel tempo di centinaia di anni. In generale il Paese è molto povero anche se il sottosuolo nasconde un enorme potenziale di oro e diamanti. Ma questo purtroppo lo rende esposto allo sfruttamento da parte di società straniere senza scrupoli, anche perché il tasso di corruzione è molto elevato.

Insomma, c’è speranza?

Certo, la speranza è rappresentata dai tanti ragazzi che frequentano le nostre scuole e hanno voglia di cambiare. Noi dal canto nostro cerchiamo di educare all’onestà e alla giustizia contro la corruzione. Il cammino però è ancora lungo: il Centrafrica ha bisogno di noi, dei volontari e dei benefattori che da anni ci aiutano. Per questo il mio invito ai lettori è di continuare a venire a fare esperienza di volontariato in Centrafrica, e darci una mano con le donazioni con cui stiamo facendo tanto: nuovi conventi per i giovani, pozzi per l’acqua, orfanotrofi, borse di studio. Ogni piccolo aiuto significa molto per il futuro del Paese.

Valentina Bocchino