Tornare a casa non è mai facile, soprattutto per chi in Centrafrica ha trascorso ben 14 anni. Ma p. Federico Trinchero ha portato nella sua valigia – da Bangui alla Liguria – tre elementi fondamentali: entusiasmo, energia e fede. Questi ingredienti gli serviranno per portare avanti il nuovo incarico che gli è stato conferito il 18 aprile, quando i confratelli Carmelitani Scalzi della Liguria lo hanno eletto loro Superiore Provinciale: ora dovrà seguire sette conventi in Italia e due in Repubblica Ceca, senza dimenticare il Centrafrica che rimane nel suo cuore. Insomma, una sfida impegnativa che ha raccolto con grinta, non prima di aver impresso una svolta a Bangui: per la prima volta, infatti, il posto di Superiore Delegato che ha lasciato è stato affidato a un frate centrafricano.

P. Federico, 14 anni in Centrafrica sono un vero e proprio pezzo di vita.

Sì, sono tanti, ma mi rendo conto che possono sembrare pochi se paragonati all’esperienza di confratelli come p. Marcello che è in Africa da quarant’anni. Sono stato quattro anni a Bouar e dieci a Bangui e adesso per me si apre un nuovo capitolo. Conserverò bellissimi ricordi del Centrafrica, ma comunque qui in Italia vedo tanto entusiasmo, molte persone che si avvicinano alle missioni con curiosità e decidono di sostenerle generosamente. È molto bello constatare questo interesse.

Cosa le mancherà del Centrafrica?

Mi è dispiaciuto lasciare i giovani seminaristi che ho seguito e accompagnato nella loro vocazione. Ma alcuni di loro verranno a continuare i loro studi in Italia, ci rivedremo. Noi missionari siamo abituati a spostarci, ma i legami rimangono.

Com’è nata la sua vocazione?

Quando ero un ragazzino abitavo nel Monferrato con la mia famiglia e il parroco organizzò un pellegrinaggio al santuario di Arenzano. Partecipai e rimasi molto colpito dalla comunità dei frati: mi iscrissi al campo vocazionale e fu una bellissima esperienza, c’era il gioco, la vacanza, ma anche e soprattutto la vita cristiana. Decisi di trasferirmi qui a dodici anni e sette anni dopo iniziai il noviziato.

Quando è andato per la prima volta in Centrafrica?

Nel 2000, avevo 22 anni e chiesi di fare lo stage pastorale in Centrafrica. L’esperienza mi piacque molto ma sentivo che non era la mia strada. Poi sono diventato sacerdote e nel 2007 il Superiore Provinciale di allora mi disse che stava pensando di mandarmi a Bouar come Maestro degli Studenti Carmelitani. Risposi di sì, e non me ne sono mai pentito.

Eppure sette anni prima non pensava che fosse la sua strada. Cos’è cambiato?

Ero sicuramente più maturo, avevo più esperienza e una missione da compiere: diventare Maestro degli Studenti era una cosa bella, concreta, si addiceva alla mia persona. Ed è stata un’esperienza bellissima.

Come sono i giovani centrafricani?

Uguali a quelli italiani: abitano dall’altra parte del mondo ma, come tutti i loro coetanei, sono generosi, entusiasti, anche un po’ timorosi di affrontare scelte definitive. Sicuramente in Centrafrica si è più abituati al sacrificio, ad accontentarsi di poco. E poi una grande differenza sta nel fatto che c’è una maggiore forza giovanile: metà della popolazione ha meno di 18 anni, ma questo anche perché la speranza di vita è bassa tra povertà e guerra. In ogni caso, chi va in Centrafrica avverte da subito che i giovani sono davvero una potenza, il futuro, la forza trainante del Paese. C’è da costruire, ma si fa ancora fatica.

A proposito di costruire, cosa è stato fatto in questi anni per la popolazione centrafricana?

Davvero tanto: solo per citare alcune delle tante opere che ci hanno visti impegnati, il convento diventato campo profughi, che è stata una delle esperienze più forti della mia vita, e poi la scuola agricola, il mattonificio, il cantiere del nuovo convento. Infine un progetto recente a cui teniamo molto è quello delle borse di studio universitarie: molti bambini grazie alla generosità dei benefattori riescono ad andare a scuola, poi però crescono. Dunque abbiamo pensato anche all’Università, per una formazione più completa possibile al fine di costruire la futura classe dirigente del Centrafrica. Sono piccole gocce che formano il mare.

Adesso lei è tornato in Italia e ha conferito il ruolo di Superiore Delegato, per la prima volta, a un frate centrafricano, p. Mesmin.

Sì, ed è giusto che sia così, dopo cinquant’anni di missione sono convinto che sia giunto il momento di passare il testimone: i missionari italiani rimarranno sul posto, ma dobbiamo responsabilizzare di più i centrafricani.

Cosa ha trovato in Italia, in questi primi mesi di nuovo incarico?

Una realtà viva, fatta di frati appassionati e uniti, animati da un grande spirito di fraternità e dedizione. Certo, cambia il modo di vivere e anche il target: mentre in Centrafrica mi dedicavo soprattutto ai giovani che non mancano mai, adesso devo mettermi in ascolto. Dobbiamo essere una bussola, metterci a disposizione, porgere l’orecchio alla nostra gente: la contraddizione è che qui abbiamo una tecnologia più avanzata, c’è il web, sembra tutto più comodo, eppure c’è molta gente sola che ha bisogno di essere ascoltata.

Comunque al Santuario di Arenzano non mancano i giovani: qual è il “segreto” del vostro successo?

Non stiamo mai fermi e siamo sempre alla ricerca di un modo efficace per dialogare con loro. E poi siamo una bella comunità: i giovani si accorgono quando tieni davvero a loro. In più, nella nostra provincia religiosa seguiamo le tradizioni sane ma siamo allo stesso tempo anche aperti e cerchiamo sempre nuove forme di coinvolgimento. Un equilibrio genuino che credo venga percepito da fuori.

Valentina Bocchino