Riportiamo l’articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano” il 19 giugno 2019, a firma di Patrizia Caiffa.

 

Il primo “cliente” della fabbrica di mattoni del Carmelo a Bangui è stato Papa Francesco, dopo la sua visita nella Repubblica Centrafricana nel novembre 2015, in apertura del Giubileo della misericordia. Una visita che ha avuto un impatto fortissimo e ha prodotto quasi un miracolo, visto che fino al giorno prima nella capitale si sparava mentre per i nove mesi successivi è stato rispettato il cessate il fuoco. Da tre anni però in Repubblica Centrafricana è tornata la paura: nonostante gli otto accordi di pace (l’ultimo nel febbraio 2019 a Khartoum), almeno il 75 per cento del territorio del paese è sotto il controllo di gruppi armati. Continuano i massacri di civili, le rappresaglie, gli assassini di preti e di suore.

Il Carmelo di Bangui è diventato famoso per aver accolto per più di tre anni (dalla fine del 2013 al marzo 2017), sul suo sconfinato terreno agricolo alla periferia della capitale, oltre diecimila profughi. In questo lungo periodo i diciannove frati con i mantelli bianchi hanno convissuto con la sofferenza e il disagio degli sfollati, e la missione, oltre all’attività apostolica e formativa, ha messo in piedi progetti per aiutare le persone in fuga dal conflitto e la gente del posto. «Se c’è una nazione da costruire perché non provare a produrre mattoni? Mattoni veri, nuovi, forti, più forti della guerra»: questa fu l’idea originaria raccontata oggi da padre Federico Trinchero, carmelitano scalzo originario di Casale Monferrato, da dieci anni in missione a Bangui. Così è stato dato inizio alla produzione di mattoni autobloccanti in argilla, sabbia, cemento e acqua. Molti ex profughi ora sono operai e muratori. Anche un centro per malnutriti voluto da Papa Francesco è stato realizzato con i mattoni del Carmelo. Il progetto, che finirà a novembre 2019, è stato finanziato con 390.000 euro dell’8 per mille della Conferenza episcopale italiana e il contributo di un’associazione francese fondata da due missionari in Camerun. Prevede anche una scuola agricola e attività di allevamento, perché «chi lavora non fa la guerra».

Nei centotrenta ettari del Carmelo a Bangui ci sono anche filari di palme da olio, orti, pascoli. Per questo perfino l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura ha chiesto ai carmelitani di poter utilizzare il terreno per impiantare un ambizioso progetto pilota teso alla formazione e all’inserimento lavorativo di cinquecento giovani. L’iniziativa, appoggiata da due premi Nobel per la pace (l’ideatore del microcredito Muhammad Yunus e la leader yemenita Tawakkul Karman) e implementata dall’ong Coopi, ha un budget di 2 milioni di euro. Finora è stato realizzato solo un pollaio, si è spiegato ai giovani come allevare le galline e avviata una produzione di sapone. I frati attendono con ansia anche l’arrivo di una trentina di mucche.

Padre Trinchero si occupa della formazione di dodici giovani: è il padre maestro della comunità. A Bangui «la vita scorre tranquillamente ma è solo un’illusione ottica. Da sei anni a questa parte — racconta — la guerra è cambiata. Non è più uno scontro tra due fronti, la Seleka e gli anti-Balaka. Sono tanti piccoli gruppi armati che vanno avanti con rappresaglie e vendette. È uno stillicidio continuo. Gli accordi di pace non sono stati efficaci e lo stato non è in grado di garantire sicurezza». Due sacerdoti, insieme a un’ottantina di civili, sono stati uccisi durante il massacro del 15 novembre scorso ad Alindao, a 500 chilometri da Bangui, in un campo di sfollati vicino alla cattedrale. Le abitazioni sono state saccheggiate e la chiesa profanata. L’ultimo massacro, con decine di civili brutalmente assassinati, è avvenuto un paio di settimana fa in due villaggi a una cinquantina di chilometri da Paoua, al confine con il Ciad. I miliziani del gruppo “3R”, capeggiato addirittura da uno dei firmatari degli accordi di Khartoum, hanno convocato gli abitanti dei due villaggi. Durante la riunione hanno aperto il fuoco indiscriminatamente. Una decina di giorni fa è stata assassinata a Nola un’anziana suora, della comunità francese Filles de Jésus. «Per noi è difficile capire le ragioni di questi attacchi. Forse — prosegue il religioso — vendette, forse la volontà di comandare nelle zone dove sono le miniere. O forse l’obiettivo è la divisione, la destabilizzazione».

Nonostante la guerra e la presenza sul territorio centrafricano di oltre 650.000 sfollati — su 4 milioni e mezzo di abitanti — il missionario carmelitano pensa che nel paese «ci sia tanta speranza. Qui c’è un capitale umano enorme, i giovani hanno voglia di fare. Anche se la situazione al momento è stagnante, con lo stato che abdica al suo potere e tanta violenza, ho fiducia nelle nuove generazioni, nella loro volontà di cambiare». Anche la Chiesa cattolica nella Repubblica Centrafricana, conclude, che durante il 2018 ha perso cinque sacerdoti, «è giovane e fragile ma non scappa davanti al nemico».

di Patrizia Caiffa