Negli stessi anni in cui Giuseppe Garibaldi scendeva lungo la penisola italiana al grido “O Roma, o morte!”, un sacerdote, di nome Daniele Comboni, attraversava il Sahara al grido “O Africa, o morte!”. Stessa barba, uguale passione, ma obiettivi decisamente diversi. Se l’eroe dei due mondi voleva conquistare Roma agli italiani, l’apostolo dell’Africa voleva conquistare a Cristo gli abitanti del continente nero. Nella sua immensa e ambiziosa impresa, il futuro vescovo di Khartoum fu preceduto e seguito da centinaia di missionari e missionarie che, da una parte all’altra del continente, portarono il Vangelo dove nessuno aveva ancora avuto il coraggio di annunciarlo, scrivendo una delle più belle, e purtroppo dimenticate, pagine della storia della Chiesa.

Il Vangelo arrivò in Centrafrica 125 anni fa grazie al coraggio di padre Jules Rémy, un missionario spiritano francese. Nel 1894, insieme ad alcuni confratelli non meno coraggiosi di lui, risalì l’Oubangui – quel ramo del fiume Congo che volge a settentrione e, tra due catene non interrotte di foresta, raggiunge le rapide di Bangui, nel cuore dell’Africa – quasi a voler toccare le sorgenti del fiume Nilo, là dove era giunto Daniele Comboni qualche anno prima, quasi a voler stringere l’intero continente in un immenso, soprannaturale abbraccio.

Padre Jules Rémy e i suoi confratelli non persero tempo e, al grido “Pour Dieu et pour la France”, evangelizzarono queste terre, che all’epoca erano una colonia francese chiamata Oubangui-Chari, riuscendo, paradossalmente, ad unire la passione religiosa di Comboni e quella civile di Garibaldi. Per raggiungere Bangui, che non era ancora la capitale del Centrafrica, ma solo un piccolo villaggio, padre Jules partì da Brazzaville e viaggiò per un mese intero e con notevoli difficoltà a bordo di un vaporetto, percorrendo una distanza che attualmente viene coperta in poche ore di volo. Bangui non fu però un punto di arrivo. Per questi infaticabili missionari francesi, che quanto a zelo non furono secondi a nessuno, l’apertura di una nuova missione, non era che un punto di partenza per altre missioni, sempre più a est, sempre più a nord, fino agli estremi confini del Centrafrica.

Non fu un’impresa facile portare il Vangelo in queste zone così diverse dalla patria che avevano lasciato. Il nostro apostolo del Centrafrica non si diede mai per vinto. Pur di far cristiani, non si stancò di riscattare i piccoli schiavi che trovava nei villaggi, di viaggiare in piroga o a piedi, seguendo addirittura le orme lasciate dagli elefanti o arrampicandosi sulle liane… sempre vestito con la sua sottana nera, un gran cappello in testa, il breviario in tasca e il fucile carico in spalla (nel caso dovesse imbattersi in bestie feroci).

Un giorno, in viaggio sul fiume, un bambino si ammalò gravemente. Ogni tentativo per salvarlo si rivelò inutile e il bambino morì. Padre Jules arrestò il convoglio, scese sulla riva e, sotto lo sguardo stupito dei suoi futuri parrocchiani, seppellì quella piccola creatura con gli onori di un re. Padre Jules ancora non conosceva la lingua degli indigeni, ma bastò quel semplice gesto per far comprendere a quelli che sarebbero diventati i primi cristiani del Centrafrica che quell’uomo alto, dalla lunga barba, sempre vestito di nero e senza una moglie, non era venuto per prendere qualcosa, ma per fare conoscere Qualcuno. Qualcuno che ama tutti. E a tutti, anche ai più piccoli, ha dato uguale dignità. E tutti attende in uno stesso e splendido Regno del quale il monjou ti Nzapa (l’uomo bianco di Dio) non smetteva di parlare.

Chissà che festa in Paradiso per la prima Messa celebrata dal primo parroco del Centrafrica, il 17 Aprile 1894, sulle sponde del fiume Oubangui! Padre Jules non disponeva ancora di una chiesa, ma di un’immensa foresta di maestosi e altissimi ayous e irokò che, nell’intreccio delle liane, non gli sembravano meno belli e suggestivi delle vetrate delle cattedrali in Francia. Come chierichetti trovò due simpatiche scimmie e per canne dell’organo le proboscidi degli elefanti; e tra i fedeli dei gorilla che non capivano il suo latino, degli ippopotami sempre in ritardo, delle gazzelle sempre le prime a scappare e dei coccodrilli che mostravano i denti ogni qualvolta accennasse a chiedere un’offerta per la costruzione della nuova chiesa… Ma alla fine Padre Jules una chiesa la costruì, quella di St. Paul des Rapides, che ancora oggi si trova là, dove celebrò la sua prima Messa. E poi, finalmente, i primi battesimi. E come fu contento padre Jules quando, con le sue stesse mani, costruì il primo tabernacolo e, artista improvvisato, ne scolpì un cuore sulla porta: come a volere dire che, da quel momento, quel Cuore, al quale aveva dato la sua vita, batteva e non avrebbe mai più potuto smettere di battere anche nel cuore dell’Africa.

E che festa nel villaggio, che pian piano cresceva attorno alla chiesa, quando padre Jules fece suonare la prima campana. I bambini, che saranno stati simpatici e curiosi come i loro colleghi attuali, non stavano più nella pelle e avrebbero voluto che il parroco permettesse loro di suonarla tutto il giorno. E che risate e che occhi spalancati, quando il parroco, con inevitabili acrobazie, cercava di tradurre gli altissimi concetti della teologia di san Tommaso e i virtuosismi dei sermoni di Bossuet nella semplice e concretissima lingua dei Bonjò. Certo non avrebbe mai potuto immaginare che, poco più di un secolo dopo, proprio dove lui un tempo abitava, ora risiede addirittura  un cardinale, figlio di quella stessa terra a cui per primo annunciò il Vangelo e che ora i bambini sono forse più interessati al Paris Saint-Germain che al suono delle campane.

Padre Jules Rémy restò in Centrafrica due anni soltanto, ma ne cambiò la storia. Dopo di lui, altri missionari arrivarono e continuarono, con non minore dedizione, l’opera da lui iniziata: padre Emile Leclercq, padre Jean Gourdy, padre Félix Sallaz, padre Raoul Goblet, padre Joseph Moreau e altri ancora. E a dimostrazione di quanto fosse vero, anche per questi giovani sacerdoti francesi, il grido di battaglia di Comboni, è sufficiente ricordare che, dei primi dieci missionari sepolti al cimitero, a due passi dalla chiesa costruita da padre Jules, solo uno riuscì a superare i trentacinque anni. Come non pensare che, proprio negli anni in cui il seme del Vangelo veniva gettato in queste terre, le fatiche di questi apostoli del Centrafrica erano accompagnate dalla preghiera di una giovane carmelitana, loro compatriota, di nome Teresa che, nel monastero di Lisieux, offriva le sue sofferenze per i missionari, lei che avrebbe voluto essere missionaria e “…percorrere la terra e annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino nelle isole le più lontane…”. Confesso che, se un giorno avrò mai la fortuna di andare in Paradiso, dopo un sopralluogo nel quartiere carmelitano, queste sono le prime persone alle quali vorrei stringere le mani.

Mi sia permesso, tra questi missionari di altri tempi, di ricordarne uno di tempi più recenti, ma della stessa tempra e che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente: padre Niccolò, uno dei quattro fondatori della nostra missione in Centrafrica. Ci ha lasciato un mese fa, all’età di novantasei anni. Dopo essere stato missionario in Giappone per sette anni, arrivò in Centrafrica nel 1971 e vi rimase per ben quarantadue anni, lavorando nelle missioni di Bozoum, Bossemptelé (da lui stessa fondata) e Baoro. Padre Niccolò ha lasciato il Centrafrica all’età di novant’anni, poco dopo l’inizio della guerra. Il seme da lui piantato ha portato frutto. E proprio alcuni giorni fa, lo scorso 8 dicembre, abbiamo reso grazie al Signore per il dono di padre Michaël, il decimo sacerdote carmelitano del Centrafrica.

Quale regalo migliore, infine, e quale onore più grande da parte confratelli della piccola Teresa, in occasione del 125° anniversario dell’evangelizzazione del Centrafrica, di una nuova edizione del Vangelo in lingua sango? Eseguita su richiesta dell’episcopato locale e dopo un meticoloso lavoro, questa nuova edizione vede la luce dopo anni di guerra. Se, in ogni maniera, si è cercato di dividere il popolo centrafricano, fino a ipotizzare la divisione del paese, questa lingua costituisce sicuramente un fattore di unità e di pace. Dal nord al sud, dall’est all’ovest – caso pressoché unico nel continente – una stessa lingua risuona per le strade e nei campi, nelle città e nei villaggi, al mercato e alla radio, nelle celebrazioni delle grandi cattedrali come nelle più sperdute cappelle della savana. Che questo nuovo Vangelo possa portare quella pace che l’intero paese da tanti anni attende!

Buon compleanno piccola chiesa nel grande cuore dell’Africa! Per l’anagrafe della storia ecclesiastica sei poco più di una bambina. E non ti mancano ruzzoloni e capricci. Ma quanto hai già da insegnare a quella vecchia Europa che ti ha messo al mondo e che sembra ormai voler dimenticare il grande dono che ti ha fatto centoventicinque anni fa.

Buon Natale!

Padre Federico

PS: Dal 22 Dicembre al 2 Gennaio sarò eccezionalmente in Italia in occasione del cinquantesimo anniversario di matrimonio dei miei genitori.

Se volete fare una donazione per le nostre missioni consultate il sito: www.amiciziamissionaria.it