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di Cristina Carbotti

Incontro Padre Carlo un freddo pomeriggio d’inverno, nel parlatorio del Santuario di Arenzano. Gli occhi attenti e curiosi, il sorriso aperto nascosto dietro la mascherina. Mi chiede di parlare forte perché ormai è un po’ sordo, mi dice, vista l’età. Eppure noto che la memoria funziona ancora benissimo. Insieme torniamo con i ricordi a quel dicembre del 1971, quando per lui iniziò l’avventura missionaria in Repubblica Centrafricana.

Padre Carlo, cosa ricorda di quel giorno?

Eravamo quattro giovani frati: io, Padre Nicolò, Padre Marco Conte e Padre Agostino Mazzocchi. Impreparati ma fiduciosi. Non avevamo nessuna paura. C’era la voglia di andare e di arrivare presto in quella terra sconosciuta, per fare un’opera buona. Volevamo annunciare il Vangelo seguendo l’esempio dei padri cappuccini che erano già laggiù. Il nostro desiderio era quello di renderci utili, in uno dei paesi più poveri del mondo, con lo spirito evangelico. Partimmo dall’aeroporto di Nizza, e per me fu una doppia avventura, perché non avevo mai fatto un volo così lungo. Quella fu la prima volta.

Dopo quel primo viaggio ne seguirono tanti altri…

Eh sì, dopo i primi sette anni laggiù sono tornato in Italia per rimanere dieci anni. Quando ormai pensavo di non tornare più in Africa, mi chiesero il favore di partire per un periodo breve, un annetto. Invece quell’anno si è prolungato per altri diciotto anni. In totale sono rimasto in missione in Repubblica Centrafricana per trent’anni e più. E anche quando sono tornato definitivamente in Italia, nel 2006, ogni anno non mancavo di fare un viaggio alla Missione per insegnare ai ragazzi.

Allora si sente ormai quasi Africano?

No, mi sento sempre assolutamente italiano! Confesso di non aver lasciato il mio cuore in Centrafrica. Sono molto contento di aver fatto quello che ho fatto, e se mi sentissi fisicamente in forma, tornerei ancora in missione. Guardandomi alle spalle riconosco che l’opera che abbiamo contribuito a fare è proprio grande e bella. La Provvidenza sa fare cose grandi. Lo sviluppo della missione è stato un miracolo. Da una, le missioni sono diventate cinque, sparse per tutto il territorio centrafricano. Missioni piene di ricchezze spirituali e umane che solo a pensarci, mi commuovono.

Si commuove ancora padre Carlo?

Sì, perché noi allora siamo andati giù a mani vuote. Non ci aspettavamo questo risultato. Eravamo solo in quattro e ora la missione si è riempita di collaboratori, che hanno dato vita al curriculum formativo dei giovani sacerdoti centrafricani. Oggi ce ne sono già nove operativi… e uno in cielo. Ringrazio il Signore che ha scelto anche me per quest’opera. Vedo i frutti senza aver seminato quasi niente. Ripeto, ringrazio il Signore e la Provvidenza.

Lei ha avuto modo di conoscere il popolo di quelle terre in periodi storici diversi. Com’è cambiata in questi cinquant’anni la società locale?

Non c’è stato un grande cambiamento. Usi e costumi sono rimasti gli stessi negli anni. Cinquant’anni fa, quando siamo arrivati noi, nei villaggi la gente era malvestita. Le case erano sempre e solo costruite in paglia. Ora è certamente aumentato il numero di quelle in muratura, coperte di lamiera. È un segno di come, anche se di poco, sia aumentato il benessere. Se di benessere si può parlare in uno dei paesi più poveri al mondo. Anche la scuola è migliorata. I bambini ora riescono a studiare e frequentare le lezioni. Anche le ragazze ci terrebbero, ma non riescono facilmente ad accedere ai percorsi scolastici. Le donne qui hanno altre cose da fare, come occuparsi ancora dei bambini e dei lavori domestici. Il progresso è molto lento. Dipende dalla mentalità arcaica delle famiglie.

Padre, se avesse la possibilità di tornare indietro nel tempo, rifarebbe tutto o cambierebbe qualcosa?

Rifarei tutto da capo, ma inizierei meglio. Comincerei a lavorare subito alle cose concrete e non lascerei trascorrere i primi sette anni per ambientarmi. Quando sono partito pensavo di annunciare il Vangelo, amministrare i sacramenti e dare una mano ai frati cappuccini solo spiritualmente. Invece è stato   necessario costruire fisicamente chiese e scuole. Mancava tutto. Se tornassi indietro inizierei subito anche con questi lavori.

Lei mi ha detto che la prima cosa che avete fatto è stato dare una formazione umana, spirituale e teologica alle popolazioni del luogo. Che accoglienza avete avuto?

Abbiamo capito subito che i Centrafricani erano disponibili e aperti alla fede. Ci hanno accolto con gioia, assimilando bene la formazione che abbiamo dato loro. La fede per il popolo centrafricano è tra i valori più grandi. Loro cercano comunque Dio. D’altronde la famiglia, in quanto valore, esiste relativamente. Laggiù vige la poligamia.

Oggi ci accorgiamo che i sacerdoti centrafricani formati alla missione sono ben legati al sistema religioso della vita carmelitana e ci tengono molto a essere missionari come noi, nella loro terra. Sono molto fedeli.

In questi cinquant’anni altri missionari carmelitani hanno percorso la strada tracciata da voi. Che differenze nota in loro?

I missionari che partono ora, sono diversi. Sono certamente più preparati, trovando un percorso già tracciato. Ora si fanno cose grandi, noi queste cose allora le pensavamo solamente. Ci mancavano le capacità e i mezzi per realizzarle. Ognuno di noi però ha contribuito a suo modo alla crescita della missione. Il bello è che i nostri giovani missionari sono abituati alle idee nuove. Il messaggio che vorrei dare loro è prima di tutto quello di portare Gesù Cristo. Poi un messaggio di pace, perché in quelle terre c’è sempre bisogno di pace, sia per la presenza di numerosi fedeli di religione musulmana, sia per i continui conflitti tra etnie diverse. Pace che serve anche nelle famiglie, essendo molti i contrasti familiari. Riconosco che in questo sono molto più efficaci di noi i sacerdoti centrafricani. Riescono a farsi ascoltare di più dalla loro gente. Dovranno essere dei focolai di pace, amore e riconciliazione per tutti, con l’aiuto della Parola di Dio.

Guardando avanti, come vede il futuro della missione?

Sarà fondamentale che la chiesa locale diventi autosufficiente e non dipenda più culturalmente ed economicamente dall’occidente e dall’Italia. Solo così potrà crescere.

Noi in RCA non siamo riusciti ancora a produrre nulla che ci possa rendere denaro per far fiorire economicamente la missione. Ci abbiamo provato. Abbiamo piantato sedicimila piante di olio da palma, abbiamo iniziato più allevamenti di vacche, ma tutto questo non è riuscito ancora a rendere nulla purtroppo. Anche perché stiamo attraversando un periodo molto difficile per l’economia a livello globale. In Centrafrica, ci vorrà ancora molto tempo per raggiungere l’autosufficienza economica della missione.

Per concludere padre, cosa le ha donato l’esperienza della missione?

Sono contento di aver lavorato per il Signore, non l’ho cercato io. Mi ha trovato Lui.

L’esperienza in Africa mi ha caricato di entusiasmo per riuscire a realizzare qualcosa anche qui in Italia. Mi ha aiutato a parlare agli altri in modo diverso. Mi porto dentro un insegnamento fondamentale ricevuto da un abitante di un villaggio nella savana, in un luogo abbandonato e selvaggio. Un uomo che, al mio tentativo di spiegargli chi fosse Dio, mi disse: “Certo che so chi è Dio. Se non conosco Dio non sono un uomo”. Un analfabeta che m’insegnava la filosofia del cuore!

Una lezione per tutti gli occidentali come me, che mi ha fatto capire che l’uomo anela a Dio come uomo, semplicemente come uomo, e, prima ancora che arrivi il missionario, è già con Dio.